Consumare abiti, consumare vite umane. Il fast fashion, disastro planetario
Fast fashion (moda veloce) è il modello produttivo tipicamente utilizzato dai brand low cost. L’attributo “veloce” si riferisce tanto alla produzione degli indumenti, quanto al relativo consumo da parte degli acquirenti.
Le aziende che operano secondo i principi del fast fashion immettono sul mercato decine di collezioni all’anno, in alcuni casi persino una alla settimana, aggiornando continuamente il catalogo e rinnovando senza sosta i trend. Quantità spropositate di merci prodotte in tempi brevissimi, vendute a costi irrisori e rimpiazzate dopo pochi giorni.
Il fast fashion, insomma, non è altro che un’applicazione particolare della cosiddetta economia della scarsità, che si fonda sulla disponibilità limitata di articoli per un lasso di tempo circoscritto. La logica low cost non produce affinché il valore e la funzionalità dei capi durino nel tempo ma affinché essi siano, fin dalla loro origine e per loro stessa definizione, rifiuti da accantonare per fare spazio ad un “nuovo” che avanza in maniera ossessiva e frenetica.
Le strategie psico-sociali
Il fast fashion fa leva sulla dimensione simbolica degli oggetti, ovvero su ciò che essi rappresentano per le persone, piuttosto che sul loro valore d’uso reale. Non punta a soddisfare un bisogno, ma ad alimentare il desiderio, la protensione incalzante verso ciò che non si possiede e che è desiderato proprio perché non si possiede. Lo fa attraverso le strategie di neuromarketing applicate alla pubblicità, vera e propria “fabbrica dei sogni” capace di presentare come must have quelli che sono in realtà meri optional. Non ci si deve semplicemente vestire ma si deve fare shopping, un’esperienza che vale la pena ripetere più e più volte.
L’intento è quello di posticipare continuamente l’appagamento del consumatore per il prodotto appena comprato, rinviandolo all’acquisto successivo. Così, le persone sono indotte all’acquisto compulsivo, ad inseguire affannosamente gli umori della moda, a percepire come obsoleti capi indossati due o tre volte.
I vestiti vengono giudicati inservibili molto prima che essi lo diventino realmente.
È quella che in economia industriale si definisce obsolescenza programmata: il ciclo vitale di un oggetto viene progettato per essere breve. L’obsolescenza reale, tale per cui le componenti fisiche del prodotto sono pensate per deteriorarsi entro un lasso di tempo prefissato, si somma all’obsolescenza simbolica o percepita: l’oggetto, dopo essere stato utilizzato un certo numero di volte, viene rubricato come “vecchio” anche quando è ancora perfettamente integro.
Le condizioni di possibilità
Come fanno materialmente i brand low cost a produrre tonnellate di abiti in tempi strettissimi e a venderli per pochi euro? Semplice: delocalizzando la produzione nei Paesi in via di sviluppo, dove il costo della manodopera è fino a 10 volte più basso rispetto ai Paesi occidentali.
In aree geografiche come il Bangladesh, la Cambogia, l’India, l’Indonesia, lo Sri Lanka o l’Etiopia milioni di operai, perlopiù donne con bambini, vengono costretti a lavorare per 2 o 3 euro al giorno, privi di qualsiasi tutela, in pessime condizioni di igiene e sicurezza.
Il costo umano
“Costretti” da chi? Dalla necessità di sopravvivere. I proprietari delle fabbriche tessili accettano di produrre a basso costo perché è l’unica alternativa che hanno. La concorrenza tra gli stabilimenti produttivi è talmente spietata (e disperata) che rifiutare l’offerta di un’impresa significa fare un tragico autogol, ovvero “regalare” la produzione ad un’altra fabbrica e mettersi nelle condizioni di dover chiudere.
Un fenomeno di proporzioni immani che ha conseguenze disastrose per l’umanità e che solo nel 2013 ha portato alla morte di oltre 1100 persone durante il crollo della fabbrica tessile del Rana Plaza, in Bangladesh, causato dalla totale inadempienza alle norme di sicurezza. L’ennesimo ma anche il più grave incidente mortale nella storia dell’industria tessile, provocato dall’abusivismo edilizio e dall’incuria di chi, quel giorno, ha costretto i lavoratori a fare ingresso nella struttura, nonostante le crepe formatesi già 24 ore prima.
L’etica del lavoro contro l’estetica del consumo.
Ecco il vero costo della moda a basso costo: il costo umano. Dietro ogni maglietta che paghiamo poco, c’è qualcun altro che sta pagando il resto. Con la propria vita. Un costo che non può essere risarcito, per avere in cambio nient’altro che un accumulo immotivato ed inutile, persino dannoso, di indumenti e oggetti di scarsa qualità.
Il costo ambientale
Un imperialismo produttivo, un esercito di schiavi i cui diritti umani sono vergognosamente calpestati. Non solo per ragioni strettamente economiche ma anche per la devastazione ambientale del consumo fast.
L’acqua e la terra dei Paesi incaricati della produzione tessile sono contaminate dagli agenti chimici usati dalle industrie della moda per fabbricare i capi in maniera veloce, efficiente ed economica. A causa della loro tossicità, una grossa percentuale di adulti e bambini sviluppa gravi patologie nel corso della propria vita: tumori, disturbi psichiatrici, paralisi spastiche e altre disabilità.
Inoltre, per venire incontro alla domanda crescente di fibra tessile e aumentare la resa delle piantagioni di cotone OGM, migliaia di ettari preposti alle coltivazioni intensive vengono irrorate a tappeto di insetticidi e pesticidi. Oltretutto, i contadini devono indebitarsi pesantemente per fronteggiare l’acquisto delle sementi geneticamente modificate, necessità che ha come conseguenza drammatica un altissimo tasso di suicidi.
Un costo ambientale che si traduce, dunque, in un ulteriore costo umano.
Non è tutto. Per produrre una singola t-shirt occorrono quasi 3000 litri di acqua: più o meno la quantità che ognuno di noi beve in 3 anni. Sconvolge ancora di più sapere che la dose di acqua necessaria per fabbricare un paio di jeans è circa 10.000 litri.
Senza contare, poi, che ogni capo è destinato a diventare un rifiuto, cioè un onere per l’uomo e per l’ambiente.
Così, quello della moda si configura come il secondo settore produttivo più inquinante al mondo, dopo l’industria petrolifera. Questo vuol dire, fra l’altro, che pagando una t-shirt 4 o 5 euro la convenienza è solo momentanea e apparente, perché sul lungo periodo occorre farsi carico dei costi per la bonifica e lo smaltimento dei rifiuti.
Fashion Revolution. Chi ha fatto i miei vestiti?
Ogni anno il movimento globale Fashion Revolution riaccende i riflettori sul fast fashion e sulla tragedia del Rana Plaza con una rete di iniziative dislocate in tutto il mondo. Quest’anno la Fashion Revolution Week torna dal 20 al 26 aprile rinnovando ancora una volta la propria mission: convogliare l’attenzione dell’opinione pubblica e dei grandi marchi sulla domanda #whomademyclothes? Già, chi ha fatto i miei vestiti? E a quali condizioni?
Fashion Revolution crede nella possibilità, per la moda, di perseguire l’obiettivo legittimo del profitto senza sacrificare la creatività, la dignità e la vita di milioni di persone.
Un primo passo è quello di prendere consapevolezza e responsabilizzarsi: ridurre la frequenza degli acquisti, controllare la compulsione verso il consumo cronico di merce industriale, prediligere le realtà artigianali che producono nel rispetto dell’ambiente, delle persone e del lavoro umano. Al giusto prezzo.
Indossare ogni giorno qualcosa di diverso (ma quanto diverso, in fondo?) ci rende più felici?
Se la risposta a questa domanda è affermativa, se ne impone subito un’altra: possiamo essere genuinamente felici sapendo che i nostri vestiti sono intrisi del sacrificio di milioni di vite umane?